Dal mese di Marzo sto seguendo con molto entusiasmo il Corso di perfezionamento in criminologia clinica e psicologia forense tenuto dalla Cattedra di criminologia dell'UniMI.
Le lezioni sono tutte estremamente interessanti, i docenti preparati e il fatto di essere poco più di una trentina di discenti favorisce il clima di apprendimento.
L'ultima lezione, però, mi ha fatta riflettere.
Una frase in particolare: "nella violenza sessuale non c'è nulla di sessuale ma tutto di violento". L'autore di questa citazione è il Dott. Olindo Canali, già in forze al Tribunale di Milano alla sezione penale e alla sezione famiglia e ora alla sezione specializzata per l'immigrazione.
Un magistrato ed un criminologo (infatti la sua lezione si intitolava "il Giudice criminologo").
Ci ho riflettuto su questa frase e più ci riflettevo più mi accorgevo di quanta verità essa contenesse.
Di solito portiamo a processo (o almeno ci si prova) gli autori di abusi sessuali sulla scorta che l'atto sessuale imposto sia il nucleo centrale dell'accusa, o comunque che sia l'atto fisico imposto in sè da condannare e stigmatizzare.
Penso che ci si dimentichi un pezzo...
Infatti, è la violenza la vera protagonista: il rapporto sessuale è imposto con violenza o minaccia coartando, e dunque azzerando, la libertà di autodeterminazione sessuale della vittima. E' con violenza che l'aggressore impone la sua volontà su quella della vittima.
Di per sè l'atto fisico non c'entra nulla.
Anche perchè di fronte alla brutalità con cui molte volte l'aggressione viene perpetrata la sessualità perde ogni e qualsiasi connotazione, riducendosi la congiunzione al mero atto carnale ed animalesco, alla prevaricazione pura e semplice, alla dimostrazione che "io sono più forte di te e ti faccio fare quello che voglio io".
Partendo da questa considerazione mi sono chiesta: cosa fare per rieducare il condannato? o per prevenire il realizzarsi di questi crimini odiosi?
Non certo la castrazione chimica, chiosava a lezione il Dott. Canali. e concordo con lui, perchè se nello stupro la componente sessuale è azzerata ma è solo la violenza che la fa da padrone, allora dovremmo "castrare" il nostro lobo frontale, sede della regolamentazione delle emozioni e del comportamento.
Chiaramente non è possibile a meno di non essere dei Phineas Gage, ma anche a lui non è andata troppo bene...
Occorrerebbe cercare di capire se il comportamento violento è innato oppure no, e se sì quali strumenti si potrebbero rivelare i più adatti.
Nel 2016 il "Sole 24 ore" ha pubblicato un articolo nel quale Adrian Raine, uno dei più importanti studiosi di neuroscienze criminali, ci dice che il bambino non nasce predisposto o meno alla violenza, è una pagina bianca sulla quale tutto ancora deve essere scritto.
Ma, "ma se subisce un’esperienza traumatica alla nascita, questo bambino può letteralmente diventare un adulto violento. Secondo i nostri studi, le complicanze alla nascita, accompagnate da un ambiente familiare negativo, riescono a triplicare il tasso di violenza negli adulti. Allora bisognerebbe chiedersi: questi soggetti sono degli assassini nati? Non proprio. Ma una precoce predisposizione sulla quale il bambino non ha alcun controllo può veramente creare un futuro fatto di violenza? Assolutamente sì.
Esiste una miscela tossica che scatena i comportamenti criminosi che inizia ad agire anche prima della nascita. Gli studi hanno ripetutamente dimostrato che le madri che fumano in gravidanza hanno una probabilità di tre volte maggiore di avere dei figli che poi diventano adulti violenti. Bere durante la gravidanza ha lo stesso effetto. Grazie all’uso delle tecniche di diagnostica per immagini, ho riscontrato che coloro che commettono un omicidio hanno un deficit di funzionamento al livello della corteccia prefrontale, “l’angelo custode” che tiene a freno i comportamenti impulsivi e le emozioni esplosive. Se questi freni sono logori oppure se l’acceleratore è troppo premuto, la macchina si schianta. Abbiamo visto che, proprio come aveva previsto Lombroso, il cervello dei soggetti con comportamenti delittuosi è diverso dal nostro, con una riduzione dell’11% del tessuto neurale al livello della corteccia prefrontale" . (qui l'articolo completo).
La domanda resta comunque aperta, perchè se è vero, come dice Reiner, che il cervello degli individui violenti è diverso da quello di quelli non violenti (diverso non difettoso), come fare per riportare sui binari della non-diversità (e non della normalità perchè il concetto di normalità a parere di chi scrive non esiste) questi soggetti?
Si potrebbe indagare sulle loro vite infantili, con domande mirate a scandagliare la loro esistenza pregressa per cercare di capire se, in un dato momento storico, il "freno" del lobo frontale si sia logorato e come.
Oppure basterebbe una forma di terapia medica?
In ogni caso, qualunque sia la  "cura" che si sceglie, il fattore umano è e resta al centro del problema: se il soggetto che delinque non percepisce il disvalore dell'atto compiuto e dunque non compie quella revisione critica necessaria per il percorso di rieducazione, non ci sarà indagine o terapia medica che tenga. Quel soggetto, per fare del darwinismo lombrosiano, sarà condannato a commettere nuovamente quel delitto.
Non voglio fare del qualunquismo, oppure liquidare con semplicità un problema che affligge gli operatori del settore da Lombroso in avanti (e anche prima), ritengo, a monte della mia esperienza lavorativa, che questa sia l'inevitabile conclusione.
Scordavo.....https://www.amazon.it/Valeria-Giacometti/e/B07QMJ815P?ref=sr_ntt_srch_lnk_fkmrnull_1&qid=1557760667&sr=8-1-fkmrnull


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